Il ragazzo delle nuvole

Lion aveva vissuto in quel paesino nascosto tra le montagne da quando era nato e vi era rimasto anche in seguito, quando molti anni prima i suoi genitori l’avevano abbandonato.

Dai racconti degli anziani del paese, in una calda mattina di primavera i genitori di Lion avevano bussato alla porta della loro vicina, una signora paffutella dall’aria gentile, e le avevano chiesto se poteva accudire il figlio per qualche ora. Giusto il tempo di sbrigare una questione urgente in paese. Da allora erano passati più di 20 anni ma dei suoi genitori neppure l’ombra.

Non era mai successo che qualcuno venisse abbandonato, tanto meno un bambino così piccolo. Fu proprio questo che spinse gli abitanti a prendersi cura di lui, tutti insieme, come un’unica grande famiglia. Francine, la vicina a cui era stato affidato, l’aveva amorevolmente accolto in casa e gli altri, a turno, provvedevano ai suoi bisogni. Chi gli pagava la retta della scuola, chi gli comprava gli abiti nuovi, chi i libri di scuola. Insomma, Lion era cresciuto sereno, amato da tutti e con il passare del tempo non aveva mai più pensato ai suoi genitori. Non si era mai più chiesto per quale motivo l’avevano lasciato solo. In fondo, si diceva, cosa sarebbe cambiato? Non aveva senso corrucciarsi con inutili domande a cui, lo sapeva benissimo, non vi erano risposte.

Solo una volta, mentre stava origliando una conversazione tra Francine e Bernard, il postino, aveva scoperto che i suoi genitori avevano deciso di abbandonarlo per le sue stranezze.  Si vergognavano molto del suo parlare continuamente da solo mentre girava tra le strade del villaggio, nominando non bene identificabili “amici immaginari” come se questo fosse la cosa più normale del mondo. Ma soprattutto si erano spaventati a morte quando lo avevano visto fare quella strana cosa con le mani. A cosa esattamente si riferissero però, nessuno lo aveva mai scoperto.

Quando era piccolo Lion aveva provato a spiegare ai suoi genitori che i suoi non erano amici immaginari, bensì amici reali. Come spiegare loro che Mulinellolo, un piccolo elfo con grandi occhi a palla, un cappello a punta in testa di color prugna marcia, con una lingua biforcuta e sulla bocca sempre disegnata una smorfia di disgusto, esisteva davvero? Quando Mulinellolo brontolava, ovvero molto spesso, provocava con il suo sbuffo un vento talmente forte da far muovere le pale del mulino all’inizio del villaggio.

E vogliamo parlare di Dondolo? Lui era un cavallo dalla lunga criniera color dei fili d’erba e un manto di un marrone più scuro della notte. Al posto delle zampe aveva due legni a forma di mezzaluna, che lo facevano dondolare avanti e indietro. Quando Lion era stanco, si accucciava sulla schiena di Dondolo e lui lo portava a spasso tra i boschi e le pinete attorno al villaggio.

C’era anche Grigiola. Non aveva una forma specifica, era solamente una grande macchia tutta colorata. A dipendenza dei giorni, era dapprima viola con dei pois gialli e arancioni, per poi diventare tutta a strisce; infine si colorava di un azzurro color dell’acqua e finiva per mimetizzarsi nel ruscello che tagliava in due il villaggio. Era una peste, ma Lion la adorava proprio per questo suo essere così pazzerella.

Anche ora che era adulto, passava con Mulinellolo, Dondolo e Grigiola tutto il suo tempo libero. Spesso se ne stavano sdraiati per ore nei prati e osservavano il cielo. Adoravano tutti e quattro guardare le nuvole e facevano sempre a gara su chi vedesse le forme più strane.

Un giorno Lion esclamò a voce alta “Quanto vorrei, anche solo per una volta, poter toccare una nuvola. Sentire la sua consistenza, modellarla tra le mie mani come fosse della plastilina e darle le forme più strane”!

Non fece in tempo a finire la frase che cominciò a sentire una strana sensazione nelle spalle, come se migliaia di piccole formichine gli stessero marciando sopra. Lentamente vide le sue braccia allungarsi verso il cielo, sempre più su, sempre più in alto, fino a quando arrivarono a toccare il cielo.

Lion non sapeva cosa dire e cosa fare! Mai, nemmeno nei suoi sogni più strani, si era immaginato una cosa del genere! Fu in quell’istante che toccò qualcosa di morbido. Non aveva dubbi, stava toccando le nuvole! Ed erano esattamente come se le era immaginate. Dolci, soffici come dei batuffoli di ovatta, un po’ ruvide come lo zucchero filato. Ne prese una manciata e così come le sue braccia avevano iniziato ad allungarsi, le vide tornare piano piano verso terra.

Una volta che ripresero la loro dimensione “normale”, i quattro osservarono per un lungo momento il batuffolo di nuvola, senza osare nemmeno respirare, per paura che questa sparisse. Lion prese però coraggio e cominciò a modellarla nelle forme più strane. La estendeva, la piegava, la arrotolava, la stiracchiava. Si lasciava fare di tutto.

Nessuno dei quattro si accorse però che poco più in là, nascosta dietro ad un albero, c’era Paulette.

Paulette era una bambina molto chiusa in se stessa, timida. Al villaggio nessuno l’aveva mai sentita parlare e nessuno l’aveva mai vista sorridere, nemmeno quando era una neonata. Se ne stava sempre per conto suo, con la sola compagnia del gatto Lumei. Quando vide la scena però non riuscì a trattenersi e le uscì dalla gola uno strano suono, un misto tra un urlo e una risata, talmente forte che i quattro alzarono la testa contemporaneamente e la guardarono.

A quel punto Paulette si girò per scappare via ma Lion la chiamò “Non scappare piccola, ti prego. Vieni a conoscere anche tu questa meravigliosa nuvola”. Paulette si immobilizzò; era indecisa se darsela a gambe levate o fermarsi e guardare da vicino quello strano pezzo di cielo tra le mane di Lion. Anche Mulinellolo, che di solito brontolava tutto il tempo, si era fatto prendere dall’emozione e chiamò la bambina: “Forza Paulette, non avere paura di noi. Vieni a giocare con nuvola. Potrai tenerla con te e darle ogni giorno la forma che vorrai così che ti tenga compagnia”. A quel punto Paulette non seppe più resistere e si avvicinò ai quattro –sì, lei riusciva a vederli tutti! – e prese tra le sue manine tremanti quel batuffolo leggero come una piuma.

Lo osservò per un istante e provò a darle la forma di Lumei. Ma l’intento non andò secondo i piani e uscì un gatto con il naso storto, senza un orecchio e un solo occhio. Paulette guardò attentamente la sua creazione ed era talmente buffa che iniziò a ridere. Rise talmente tanto che le uscirono le lacrime dagli occhi e le vennero i crampi alla pancia, ma non riusciva a smettere. Rideva, rideva, rideva.

Tornò al villaggio mentre ancora rideva a crepapelle, tanto che gli abitanti uscirono dalle loro case e cominciarono a chiedersi cosa fosse successo. Lion tornò poco dopo e raccontò loro tutta la storia.

Ora per tutti, Lion compreso, era chiaro a cosa si riferissero i suoi genitori quando l’avevano abbandonato. La “cosa” che Lion riusciva a fare con le mani non era nient’altro che la capacità di poter afferrare le nuvole. E dopo aver visto Paulette ridere per la prima volta nella sua vita, era ovvio a tutti per cosa avrebbe dovuto utilizzare quello splendido dono.

Il giorno seguente, dopo aver messo nel suo zaino i suoi pochi averi e un po’ di provviste, salutò ad uno ad uno tutti gli abitanti del suo villaggio e, affiancato dai suoi fedeli amici che non erano immaginari, si incamminò sul piccolo sentiero verso l’ignoto, a regalare pezzi di cielo a tutti i bambini che ne avessero avuto bisogno.

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